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Chi Siamo

S'Accabadora Pianalzesa è una maschera giovane, nata nel 2019 da un gruppo di donne e ideata dalla presidente Tata Carboni.  

Con questa maschera si è voluto raffigurare in modo simbolico la figura di questa donna detta accabadora.

La storia

In passato aveva il compito di porre fine all'agonia delle persone malate terminali, quindi quando per loro non c'era più la possibilità di guarire. 

Questa donna inquietante è sempre stata avvolta dal mistero, tanto che a oggi molte persone non ne conoscono nemmeno l'esistenza o non credono sia esistita veramente. 

 

S'accabadora Pianalzesa indossa sul volto una maschera in cuoio che le ricopre la bocca, il naso e la fronte, lasciando libero solo il contorno degli occhi (disegnata da Donatella Marras e realizzata da Graziano Viale).

La maschera non è stata mai attestata dalle fonti, è stata voluta fortemente da noi per distinguerci dalle altre maschere sarde, se si osserva attentamente si capisce cosa volevamo raffigurare con essa.

Ha delle “pieghe” che raffigurano una sorta di fazzoletto che veniva utilizzato dalle femmine accabadore per non farsi riconoscere.  

La maschera:

Il vestito:

 

(Anche questo disegnato da Donatella Marras e poi realizzato dalla sarta).

Siamo vestite tutte di nero. Con una gonna lunga e giacchetto come era usanza in epoca passata, utilizzata anche per confondersi nel buio della notte quando si recava a portare la buona morte, chiamata per porre fine a una lunga e lenta agonia di un familiare. 

Sulle spalle indossiamo “sa mantedda” una mantellina di orbace nero con “su cuguddu” un cappuccio che ricopre il capo realizzato da antiche coperte di orbace. 

 In mano teniamo stretto “su mazzuccu” (martello molto pesante di legno stagionato di olivastro) con il manico corto che permetteva con facilità di essere impugnato correttamente per poter dare un colpo forte/sicuro sull' osso parietale del moribondo, in modo da assicurargli una morte rapida e indolore. 

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Alla vita teniamo legato “su jualeddu” un piccolo giogo che serviva per il rituale con il quale tentava per un'ultima volta di risanare il moribondo mettendolo sotto il suo cuscino.

Il giogo era il simbolo della vita perché strettamente legato al lavoro nei campi, e quindi al pane alimento fondamentale per le famiglie. 

Secondo alcune fonti, quando il moribondo tardava a morire, significava che doveva scontare un peccato grave commesso durante la sua vita. 

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S'accabau (il moribondo) ha il viso coperto da una maschera che raffigura il dolore. Porta sulle spalle un vero giogo che rappresenta il peso e la sofferenza della sua condizione da cui viene liberato una volta che l'accabadora lo colpisce. 

La coreografia

 

Dopo una camminata, le accabadore si dispongono in fila indiana vicino a s’accabau, gli passano attorno per tre volte in senso orario e antiorario.

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I tre giri simboleggiano gli ultimi giorni di vita del moribondo, quando s’accabadora  poneva sotto il cuscino su jualeddu per aiutarlo a risanare (o almeno ci provava). 

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Dopo i giri, s’accabau viene quasi avvolto dalle accabadore, successivamente il giogo viene tolto dalle spalle del moribondo, che cade a terra, aiutato da una accabadora che in quel momento tra le sue braccia gli canta una sorta di “Nenia” (ninna nanna) che lui si sarà sentito cantare dalla propria madre da bambino. Una volta che s’accabadora è a terra con il moribondo fa cenno a un'altra accabadora per poter dare il colpo finale.

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Una volta passato a dolce vita, le accabadore si riposizionano in fila indiana, accompagnate dal suono ritmico dei jualeddi appesi in vita, quasi a ricordare il tocco delle campane suonate a morto.  

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Atto costitutivo e Statuto dell'associazione

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